I graffiti del castello Normanno: inestimabile testimonianza storica del nostro passato

95047.it I prigionieri rinchiusi nei secoli passati in vecchie torri e palazzi, oltre che dalla pena, erano a volte accomunati da una peculiarità, ovvero l’abitudine di esprimere i loro sentimenti, quali le sofferenze, il pentimento o la rabbia, la durezza e la crudeltà dei metodi con cui la giustizia li trattava, attraverso iscrizioni, disegni e incisioni che tracciavano sulle pareti delle loro celle.
Anche il castello di Paternò conserva i suoi graffiti. Esso, infatti, dopo essere stato fortezza militare e residenza signorile, nel XVII secolo i Moncada (Signori di Paternò) lo adibirono a prigione, e tale rimase fino al 1860. In quella che viene chiamata Sala del Parlamento, caratterizzata dalle quattro bifore, sulle pietre che incorniciano i vani delle stesse finestre restano le tracce di alcuni interessanti e curiosi segni lasciati dai carcerati. Quello che oggi si può osservare è quanto risparmiato dai discutibili restauri del Novecento. Questi graffiti, a volte autentici bassorilievi, oltre che iscrizioni rappresentano figure umane, animali, simboli ed oggetti: un boia con tanto di sciabola mentre si appresta a decapitare un condannato a morte (forse un’allusione al martirio di Santa Barbara), una grande aquila borbonica, un cuore sormontato da una palmetta, una spada dalla lunga lama, alcune date (1708, 1830, 1838) nonché altri disegni poco decifrabili.

Il graffito più interessante, che costituisce un interessante documento, consiste però in una poesia, una quartina forse del ‘700 incisa da un prigioniero. Un certo don Andrea Corsaro sfogò le sue pene riconoscendo di aver meritato la sua condanna scrivendo: “Dentro questa prigione fui prigioniero/ d’otto mesi don Andrea Corsaro/ e tale prigione non ebbi a discaro/ che quanto io feci fu contro ragione”. Per alcuni questo Andrea Corsaro sarebbe uno zio materno del geografo paternese Giovan Battista Nicolosi, anche se non si conosce il reato per il quale finì in carcere.
Interessanti e più note analogie sono riscontrabili nel castello Ursino a Catania e nel Palazzo Chiaramonte, detto Steri, di Palermo. Su di una parete di castello Ursino, ad esempio, tra i numerosi disegni graffiti sulla pietra bianca, si trova incisa una frase nella quale si possono leggere le parole: “Stramundo pativa torturi pi nu amicu”, iscrizione che reca la data 1595. Palazzo Steri a Palermo fu anch’esso carcere e anche tribunale dove, dal 1601 al 1782, gli uomini inviati in Sicilia dal famigerato inquisitore spagnolo Torquemada, interrogarono e torturarono in nome di Dio, lanciando accuse di eresia, bestemmia o magia. Qui dei lavori di restauro di alcune celle hanno riportato alla luce sotto l’intonaco nuovi graffiti, disegni ed invocazioni, alcuni lasciati da donne accusate di stregoneria.

Aquila borbonica raffigurata all'interno del castello Normanno
Aquila borbonica raffigurata all’interno del castello Normanno

L’iscrizione più sconvolgente, scritta in rosso ocra, è proprio una poesia che esprime sfogo e recita: “Caudu e fridu sentu ca mi pigla/ la terzuri tremu li vudella/ lu cori e l’alma m’assuttiglia”; cioè: Sento freddo e caldo, mi ha preso la febbre terzana (cioè la febbre malarica), mi tremano le budella, il cuore e l’anima mi diventano piccoli”. In altre stanze sono inoltre affiorati un dipinto che raffigura la prua di una nave, una figura umana (forse un uomo in ceppi) e poi ancora parte di un’altra figura umana che potrebbe essere un santo o forse un inquisitore con un campanaccio in mano. Il restauro della facciata dello stesso edificio ha ridato splendore anche al prospetto, qui la scoperta più inquietante è stata il rinvenimento dei solchi lasciati dalle due gabbie appese nella parte alta, dove a lungo furono espose le teste dei baroni che si ribellarono a Carlo V all’inizio del suo Regno (1516-1554).

Così, a Paternò, Catania e Palermo, come in numerose carceri della Sicilia spagnola, uomini e donne furono reclusi a centinaia; non solo eretici, ma anche menti scomode, poeti, innovatori, nemici dell’ortodossia politica. Oppure semplici poveracci, ladri, falsari e debitori del fisco. Abbiamo visto come tanti lasciarono il segno del loro passaggio, una testimonianza nell’attesa di andare al patibolo, al rogo, o prima di essere frustati o ricevere il taglio della lingua, o semplicemente essere rilasciati dopo avere scontato la pena. Qualche anno fa a Palazzo Steri è stato realizzato il cosiddetto “Polo dell’Inquisizione”, un percorso museale che ha al suo centro la visita ai graffiti degli antichi prigionieri. Un’idea suggestiva, questa, che potrebbe essere applicata, in futuro, anche nel percorso turistico del castello di Paternò.

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