La politica paternese alla fine dell’Ottocento

95047.it Nei primi decenni successivi al 1861, anno dell’unità d’Italia, la nazione era attraversata da nuovi fermenti sociali e politici, un contesto in cui si incontravano e scontravano idee liberali e forze della destra storica, il nascente socialismo e tendenze imperialiste. E, mentre la Corte, gli ambienti militari e gli esponenti della grande borghesia propugnavano una politica di prestigio e di forza, i governi di sinistra ricorrevano a una politica volta a rimuovere le difficoltà di ordine sociale.

In Sicilia la situazione socio-economica era drammatica. Tra il 1893 e 1894 la nostra Isola fu percorsa da forti segnali di rivolta che lo stesso Francesco Crispi represse duramente. Le persecuzioni furono indirizzate contro i Fasci dei lavoratori, nati e diffusisi per l’iniziativa di un gruppo di borghesi d’ispirazione socialista.
All’epoca, uno dei problemi più sentiti era quello dei dazi, e anche Paternò soffrì per il grave peso fiscale imposto dallo Stato, tanto che nell’aprile del 1896 si verificarono quelli che vennero definiti come i ‘Fatti di Paternò’. Per saperne di più ci vengono incontro alcune pagine delle Memorie Storiche dello storico Gaetano Savasta, il quale descrisse cosa avvenne in quei giorni tumultuosi: “Si fanno debiti con banche o particolari i cui contratti fanno ribrezzo. […] molte popolazioni dell’Isola aizzate dalla fame e da certi partiti politici, che hanno costituito i Fasci dei lavoratori, bruciano casotti daziari e si ribellano. Sono noti i fatti di Paternò dell’anno di grazia 1896. Il Municipio, in vista del disavanzo sempre crescente, aveva votato il focatico (tassa sulle famiglie, ndr), che colpiva direttamente le classi agiate. Il popolo si agitò il 19 aprile e un’imponente dimostrazione fece sì che il prefetto di Catania inviasse a Paternò il sottoprefetto di Acireale, che fece votare al Consiglio la soppressione del focatico, ma apponeva nuovi dazi su vino, cacio, gesso, ferro lavorato, pesce e carne. Questa deliberazione crebbe le ire popolari […]. La dimane il Municipio pubblicava un telegramma del Codronchi in cui si annunziava soppressi i nuovi dazii; ma intanto gli agenti continuavano a riscuoterli. La popolazione credendosi burlata, e già in fermento, si organizzò. […] si reca agli uffici daziarii e tutti li distrugge col fuoco […] mossero verso il Palazzo comunale. Il Palazzo è bloccato dalla truppa […] si carica la folla. Chi fugge, chi cade, chi sanguina, chi resiste. […] molti cittadini sono feriti di baionetta[…]. Quella giornata si chiuse con la venuta dell’autorità giudiziaria che istituì un processo rigorosissimo svoltosi nell’agosto seguente a Catania e finito con la condanna di molti cittadini, anche ragguardevoli. […] sciolto il Consiglio comunale, veniva un commissario regio, che esaminato il bilancio, e trovatolo in dissesto, imponeva una sovrimposta di lire novantasettemila che si pagò sulla fondiaria”.

Intanto, il dieci febbraio 1889, era entrata in vigore la legge che estendeva l’accesso ai Consigli comunali e provinciali ai rappresentanti delle minoranze, fino ad allora esclusi. Allo steso tempo i sindaci dei Comuni con più di diecimila abitanti (all’epoca Paternò ne contava poco più di trentamila) potevano essere eletti dai Consigli comunali, e non più investiti da un Regio decreto su designazione di un prefetto. Si trattò, quindi, di un balzo in avanti verso forme elettive più democratiche. Questo comportò un maggiore fermento nel dibattito politico cittadino. Leggendo documenti dell’epoca sull’attività amministrativa paternese, ma anche sulla propaganda elettorale, è facile fare dei confronti con quanto avviene ai nostri tempi. Si nota subito come, a distanza di oltre un secolo, ben poco sia cambiato nel fare politica, e nella forma che nei contenuti. È cambiata senz’altro la forma linguistica, allora enfatica, sopratutto in tema di ideali e polemiche, scuse, accuse e quant’altro. A quel tempo ad amministrare la cosa pubblica erano ancora gli esponenti dell’aristocrazia e della borghesia locale e, al di là di certe situazioni grottesche, emergono le forti difficoltà della classe politica locale nel risolvere problemi di una certa gravità, specialmente quello del bilancio comunale quasi sempre disastrato. A riguardo, abbiamo consultato documenti del periodo compreso tra il 1889 e il 1900, in particolare lettere aperte, manifesti elettorali, libelli e ordini del giorno del Consiglio comunale, scritti da sindaci, consiglieri e candidati alle elezioni.
Ritornando al tema del dissesto economico comunale, leggiamo brevemente quanto scrisse ai paternesi – in una lettera aperta datata 26 ottobre 1889 – un ex impiegato comunale, tal Angelo Rapisarda, intenzionato a occuparsi di politica, e che della materia amministrativa doveva avere una certa conoscenza: “Onorevoli Signori, sono note oramai a tutti le frequenti irregolarità che si lamentano nell’amministrazione comunale, sia per insipienza degli amministratori, sia per la insufficiente sorveglianza. […] l’azienda comunale è ridotta assai deplorevole, perché la conduzione di essa non corrisponde alle speranze che essa concepisce. Gli amministratori oggi generalmente al più alto grado di disagio morale e materiale, non scorgendo benefizi pari alle cospicue rendite del Comune, dubitano che queste vengono distratte da ingenti spese di amministrazione, di personale, di non necessarie opere pubbliche, e di qualche abuso. […] in questo punto trovo opportuno ricordare ai Signori lettori che dal 1883 fin qui, tre volte si è disciolto il Consiglio, tre volte destinazione di Delegati straordinari, e quattro volte ricostituzione di nuove amministrazioni, e ciò perché? E dal 1880 cosa si è avuto di buono? Mutui, alienazione dei beni patrimoniali, quotizzazione dei beni materiali demaniali comunali. […] il mutuo colla Cassa depositi e prestiti governativa, estinguibile in venti anni, ha un totale di un milione trecento novantacinquemila e cinquecento lire”.

Dello stesso tema tratta, invece, il patetico manifesto che, nell’agosto del 1890, Gaspare Battiati, allora sindaco di Paternò, scrisse in un’improbabile dichiarazione di dimissioni: “Otto mesi or sono mi affidaste l’amministrazione di questo Comune. L’erroneo convincimento che il paese mi avrebbe sorretto nel compiere la difficile missione, ad onta delle evidenti difficoltà, che frapponeva il noto dissesto, in cui versava e versa tuttora la Finanza comunale, di buona fede mi fece ardito accettarne l’incarico. Con queste idee credo che nulla abbia trascurato in progetti di assesto e di possibile pareggio[…]. Ho dovuto molto pazientare, onde resistere con umilianti sottomissioni all’assedio dei multipli creditori, alle minacce continuate di pagamenti coattivi, alla privazione di qualunque spesa riguardante sia la polizia interna, sia la salute pubblica, sia l’igiene. […]. Questo modo di amministrare però cominciò a non esser d’accordo con tutt’altre idee, e di quando in quando una larva di malumore pare siasi voluta insinuare nella pubblica opinione al mio riguardo. Taluni che, usi a far del pubblico funzionario una marionetta a proprio uso e vantaggio, han cominciato sottomano e con mascherate forme a costituire inqualificabili congreghe, accozzando dispiacenti, ingordi e illusi. Sin’anco in atti elettorali e con la stampa si è tentato mistificare sulla mia onorabilità. Cittadini, ho dovuto soffrire tanto, ma non intendo scendere menomamente a disgustose polemiche […] nel convincimento che le controversie municipali sono state sempre la cagion vera dei dissesti finanziari dei Comuni. A evitare ciò. Ho declinato all’illustrissimo sig. Prefetto della provincia le dimissioni di Sindaco di questo Comune […]”.

Invece, in un altro manifesto, datato 15 settembre 1891, il cavalier Salvatore Cutore, allora consigliere provinciale e già sindaco di Paternò, scriveva irritato per chiarire la sua posizione sul distacco della Pretura di Santa Maria di Licodia da Paternò, rimproverando aspramente l’amministrazione comunale: “Ai Cittadini di Paternò […]. Fermo sempre nell’adempimento dei miei doveri, come a una consegna d’onore, non appena venne iscritto all’ordine del giorno del Consiglio provinciale il parere da darsi sulla nuova legge delle Preture e perciò sul distacco di Santa Maria di Licodia dal Mandamento di Paternò, mi premurai dirigere lettera, datata primo Settembre 1891, al Sindaco e al Consiglio comunale di Paternò, perché preparasse tutti i mezzi di difesa e si mettesse in diretto rapporto coi rappresentanti provinciali del Mandamento. Ma questa mia lettera non fu creduta degna di risposta, e anzi, con mia somma sorpresa, il Municipio non si presentò alla Commissione del Consiglio Provinciale, non produsse memorie, atti e documenti, e lasciò libero campo – senza pensare al vecchio adagio che l’assente ha sempre torto – al Municipio di Biancavilla, che mise tutte le armi in moto per ottener vittoria […]”.

Infine, in un gustoso documento di carattere moraleggiante, redatto con pedante e retorica demagogica da Gaetano Signorelli Caruso, notabile paternese e candidato alle Elezioni comunali del 13 luglio 1889, leggiamo: “Ai miei concittadini elettori. Fratelli! È sonata l’ora; sono arrivati i momenti in cui dobbiamo mostrare quanto le nostre forze, quanto il nostro appoggio è utile alla Patria nostra. […] il nostro ideale dev’essere per bandire lo spirito di parte, il quale ha fruttato sempre la rovina, la piaga cancrenosa del nostro povero e sventurato Comune. […] fuggiamo per sempre quei rettili velenosi che più o meno putibondi si aggirano di quà e di là per pescare qualche merletto, non ci facciamo illudere da taluni che sono più vili del ladro, più abbietti della meretrice, che sono la rovina delle famiglie, la peste della società, la maledizione di Dio, e ne abbiamo avuto delle prove inappuntabili, voi li sapete li conoscete e non occorre fare dei nomi… Non ci facciamo ingannare da quelle solite carezze, che si sogliono fare alle ballerine d’un gran teatro per ottenere facilmente il loro bacio; dessi si strisciano come il serpe per strapparci il voto, onde soddisfare la loro ambizione, e costoro poi giungono fin’anco a togliere il pane al povero, per accumulare col denaro altrui una rendita ai propri figli. Siamo uniti o fratelli a sostenere il merito e la virtù […] accorreremo alle urne e getteremo quei nomi che risponderanno al nostro programma e così lasceremo un glorioso retaggio, e saremo benedetti dai nostri figli, dai nostri nipoti e, dalla terra che ci vide nascere”.

Dalla lettura, non necessariamente attenta, di questi documenti, emergono degli elementi che ci spingono a ovvie ma interessanti conclusioni. Non solo sul clima, spesso avvelenato, che a fasi alterne ha accompagnato la politica e l’amministrazione della cosa pubblica a Paternò, coi suoi rappresentanti, spesso in astioso conflitto tra loro più per interessi personali che collettivi. Ma anche per una serie di problemi “tradizionali”, quale ad esempio quello del rischio di dissesto economico e delle tasse che, a distanza di oltre un secolo, per la loro attualità non possono che lasciarci stupiti.