“Così uccidemmo Turi Leanza”

95047.it.i E’ il racconto agghiacciante di un delitto. Dell’omicidio di Turi Leanza, il boss di Paternò. Franco Musumarra a novembre decide di collaborare con la magistratura e la sua prima confessione sarà quella inerente i sei colpi sparati alla testa di “Padedda” per “finirlo”. Una morte che sarebbe stata pianificata dai vertici del clan contrapposto agli Alleruzzo, i Morabito-Rapisarda. Da una parte l’anima paternese della famiglia Laudani, dall’altra il gruppo di Salvatore Leanza alleato dei Santapaoliani. Una faida che ha riportato Paternò a una polveriera pronta a esplodere. Catapultati negli anni ’90 in una cruenta e sanguionosa faida interrotta qualche settimana fa dagli arresti dell’operazione En Plein.

Torniamo al 27 giugno di un anno fa. Sono le 6.55 in via dei Platani, i carabinieri trovano Turi Leanza crivellato da decine di colpi all’interno della sua Alfa 156 bianca. La moglie nell’agguato resta ferita. Franco “Cioccolata” Musumarra sarebbe stato delegato da Salvatore Rapisarda a essere il “responsabile del gruppo di fuoco” che quel giorno condanna “Padedda” a morte. Sull’asfalto e in auto i carabinieri trovano i bossoli di tre pistole diverse: una calibro 7.65, una calibro 9 e una 38 special. Dall’autopsia si determinerà come il corpo di Turi Leanza era stato trasformato in uno “scolapasta” tanti erano i colpi che gli erano stati sparati.
“Io materialmente ho sparato gli ultimi colpi di pistola calibro 38 ne ho sparati in particolare 6” – Filippo Musumarra è preciso. Così come non era stato tralasciato nessun dettaglio nella pianificazione del delitto: “Seguivamo Leanza da 15 giorni per cercare il momento giusto per ucciderlo ed era previsto che potevamo sparargli anche in presenza della moglie”.
La mattina dell’omicidio il pentito arriva a via dei Platani a bordo di una Fiat Punto rubata, che poi sarà bruciata e ritrovata dai carabinieri qualche ora dopo l’omicidio. Sono in quattro in auto: Francesco Peci alla guida, Sebastiano Scalia accanto. Sul sedile posteriore – secondo la ricostruzione dei verbali di Franco Cioccolata – Alessandro Farina e Musumarra. A fare da vedette Francesco Patti e Antonino Magro che “con dei wolkie talkie non intercettabili” avvisarono che Leanza era uscito di casa. “U cani nisciu”.

A quel punto entrano in azione i killer. “Per primo partì Scalia che scaricò su Leanza tutti i colpi della 7.65”. A dettare gli ordini è Musumarra: “Nel frattempo dissi a Farina di partire e di colpirlo al corpo. Sparò tutti i colpi calibro 9 a circa un metro e mezzo di distanza colpendo Leanza e dopo ho capito che aveva ferito anche la moglie. Non c’era ordine di colpire la moglie – chiarisce il collaboratore – penso che fu ferita per errore”.
Gli ordini erano chiari: colpire Leanza al corpo perché lo sparo finale spettava a Franco. “Dissi a Scalia e Farina di non colpire alla testa perché questo era compito mio in quanto dovevo vendicare l’omicidio di Alfredo Rapisarda, fratello di Salvatore , che Leanza aveva ucciso molti anni prima con un colpo alla nuca a tradimento”.
E c’è la spietatezza dei killer di mafia nelle parole del neo collaboratore di giustizia. Senza scrupoli, senza coscienza, senza dignità. “A quel punto per finire Leanza sono arrivato io – ricorda – con una calibro 38 a canna lunga”.
Quelle pistole non sono state mai trovate: “Salvatore Rapisarda ordinò di bruciarle”. A quel punto sono state affidate a una persona che doveva disfarsene. Forse le armi con cui è stato “trivellato” Turi Leanza – secondo il killer– potrebbero essere state nascoste nella zona di “Ponte Barca” dove “c’è una diga”.